Attualità/Politica

I primi giorni del muro di Berlino

Oggi si festeggiano 25 anni dalla caduta del muro di Berlino, l’evento che più di ogni altro ha decretato la fine della guerra fredda – e forse del Novecento tutto. Tra le molte cose belle che oggi sono uscite nei giornali segnaliamo la testimonianza dello scrittore giapponese Murakami Haruki (sul Corriere della Sera di oggi) e la spiegazione della serie di eventi inaspettati che portarono all’abbraccio fra i tedeschi dell’Est e dell’Ovest, sul Post.

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Il muro cadde il 9 novembre del 1989. La sua nascita risale invece ai primissimi anni 60 (in particolare nell’estate del 1961). Due anni dopo il presidente degli Stati Uniti d’America visitò Berlino e pronunciò il celebre discorso dell’Ich bin ein Berliner. Il New Yorker ha spulciato nei suoi immensi archivi ed ha ripubblicato online un lunghissimo reportage (a proposito delle benemerite longreads) che John Bainbridge scrisse per il numero del 27 ottobre 1962 del settimanale newyorchese.

L’articolo si chiama Die Mauer e racconta “the early days of the Berlin wall”.

Già allora il muro era sfuggevole alla vista, perché “resiste a qualsiasi paragone” e non assomiglia a niente di familiare per cittadini di altre città (nello specifico di Bainbrdige, New York). Niente nel mondo era come die Mauer, il Muro, così come unico era il suo scopo. E’ il solo muro costruito per tenere le persone al di qua, laddove fin lì i muri servivano per difendersi da nemici esterni. Architettonicamente ridicolo (a differenza del Vallo di Adriano o della Grande Muraglia, ad esempio), la sua costruzione fu diluita nel tempo e negli anni (fino al muro “di quarta generazione” del 1975). Fu tirato su al confine, intorno ai settori occidentali, nella linea che al centro di Berlino faceva da spartizione fra le 4 potenze per delimitare le aree di occupazione tra gli alleati e i sovietici; un confine creato a tavolino nel 1945 ma che non rispettava logiche urbanistiche; per questo, quando poi fu costruita la protezione, essa seguì un percorso del tutto irregolare, tagliando a metà parchi, cimiteri, piazze, e nel 1962, quando scrive Bainbridge, ancora era perlopiù una rete di filo spinato.

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Brutto, era brutto, ma l’obiettivo fu centrato – cancellare ogni tentativo di fuga verso Berlino Ovest. Dal 1945 al 13 agosto 1961 (quando fu presa la decisione) erano scappati circa 4 milioni di cittadinii della DDR (uno su quattro scappava) – dal 1962 al 1989 il numero si è ridotto a 5000. La Germania dell’Est era quindi l’unico paese europeo ad avere un surplus fra natalità e mortalità, ma allo stesso tempo una popolazione in decrescita. L’emigrazione di manodopera giovane, soprattutto, era insostenibile (e gli emigrati all’Ovest trovavano subito lavoro), se ne lamentò anche il leader della DDR Walter Ulbricht sulla Pravda. Fu vietata la fuga all’estero e furono messe in pratica misure di sicurezza ai confini, ma non si riuscì a bloccare la falla all’interno della città di Berlino, dove bastava muoversi tra i settori con i mezzi pubblici, a piedi, persino in taxi. La Volkspolizei poteva arrestarli, ma era raro, i più riuscivano nella fuga. Si parla di circa 19 000 tedeschi al mese dal 1950 al 1961, quando, solo a luglio, passarono il confine 30415 persone (aumento dovuto al clima di tensione raggiunto fra Krusciov e Kennedy e alla collettivizzazione forzata nella Germania dell’Est, oltre all’imbarazzo per i 6000 abitanti della DDR che lavoravano in “occidente”).

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A metà giugno Ulbricht aveva detto:

Nessuno ha intenzione di costruire un muro

Nelle settimane successive si intensificò il numero delle persone fermate al confine, nella seconda settimana di agosto Ulbricht chiese rinforzo a Krusciov, la stampa pubblicava lettere di cittadini che chiedevano la chiusura immediata del confine. Furono proprio quelle reazioni spontanee (?) a dare il la definitivo, e anche a contribuire ad un clima di “se non ora quando?” fra i cittadini che stavano considerando plausibile la fuga, con un definitivo crescendo fra l’11 e il 12 di agosto. Infine, alle due della mattina di domenica 13 agosto l’esercito iniziò a mettere i sigilli al confine. Il “primo muro” era fatto di filo spinato e pali di legno, si riusciva ancora a aprire dei varchi, non erano più migliaia ma dozzine le persone che trovavano un modo, anche nuotando nella Sprea finché si inasprì il comportamento dei Vopos (i poliziotti della Volkspolizei) – spari di avvertimento, etc. Circa un mese dopo il confine era chiuso definitivamente, e non ci si poteva avvicinare alla recinzione.

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Per far spazio a quella che poi è rimasta nota come “la striscia della morte” furono demolite case, distrutti interi isolati, confiscate terre. Le case che per un motivo o un altro si trovavano nel mezzo del confine furono “murate” dall’esterno.

Bainbridge racconta di essere stato in quei giorni in giro per Berlino insieme ad un colonnello dell’esercito statunitense in borghese che cercò di spiegargli la situazione della città con queste parole:

Se vuoi avere un’idea, immagina di svegliarti un giorno e trovare Manhattan divisa da un muro nel bel mezzo della Fifth Avenue da Battery al Bronx. Vivi nella West Tenth Street e il tuo ufficio è a Park Avenue. Non andrai più a lavorare. I tuoi genitori vivono nella East Eighty-second Street. Non li vedrai più, così come non sarai in grado di raggiungere la East Side, l’ospedale, non potrai più guardare un film al cinema. E nessuno verrà a trovarti.

7 berlinesi su dieci erano imparentati o in stretti rapporti con persone al di là del muro, c’erano fidanzati che hanno dovuto rinunciare al matrimonio perché vivevano sulle due parti della città; niente più visite al cimitero, messe, etc.

Parallelamente all’espansione del muro – aumentavano anche le unità militari a difesa dei checkpoint, così da non permettere in alcun modo avvicinamenti indesiderati. A Berlino Est, nel 1961, controllavano il confine 18 mila uomini. Nella parte occidentale 1500. Bainbridge riporta il titolo e un pezzo della Bild-Zeitung dopo un omicidio (cosa piuttosto frequente) nei pressi del muro:

A Berlino e dintorni, i tedeschi sparano ai tedeschi. Cosa stiamo facendo? Qual è il problema della Germania nel 1962? Che questa è una Germania malata. Una Germania che non si indigna per le ingiustizie e che non è abbastanza sconvolta è una Germania traballante.

Un terzo circa delle fughe riuscite durante il primo anno da quel 13 agosto avvenne nei primi due mesi, quando c’era ancora molta confusione. Al momento del titolo della Bild-Zeitung era già troppo tardi per le fughe a nuoto nella Sprea. La Vopos stava diventando sempre più repressiva, il muro stava avendo i suoi effetti. Si passo così in breve ai tunnel, di quelli costruiti a fini di lucro, in una sorta di imprenditorialità situazionale che faceva di necessità virtù, un’imprenditoria retta, in quel 1962 in cui Bainbridge scrive – si dice – da un 26enne camionista dell’ovest, che sul pezzo uscito nel New Yorker viene chiamato con il nome di Jacob Mueller. Jacob, insieme ad altre tre persone, aveva scavato una buca da un appartamento di Berlino Ovest fino ad uno di Berlino Est. Ai residenti andava una parte dei guadagni e passaggio libero. In 12 giorni fecero passare 27 persone (all’equivalente di 250 dollari a persona); il 13esimo due clienti gli tesero una trappola e lo fecero uscire per andare a prendere altri fuggitivi. Jacob trovò davanti a sé la Stasi, fu ferito e portato in ospedale, dove morì. Come lui, erano tante le persone che provavano ad eludere la polizia politica; qualcuno li ha anche chiamati martiri, di una libertà che spesso arrivavano solo ad odorare, attraverso le spine di quel filo che si stava trasformando sempre più in un vero muro. Fra loro molti studenti universitari di Berlino Ovest, che in quei mesi portarono al di qua della cortina di ferro centinaia di giovani come loro. Dall’occidente si accusava Ulbricht di aver trasformato la DDR in un campo di concentramento, nel muro si leggevano murales con la scritta KZ, abbreviazione di Konzentrationslager.

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Nell’articolo del New Yorker, Die Mauer è un entità più che pronunciata, ancorché le sue sembianze non fossero quelle che ben conosciamo oggi; l’articolo continua e descrive nel dettaglio quei tentativi, primi e quasi ultimi, nonché la vita quotidiana, ben rappresentata anche dal capolavoro cinematografico Le Vite Degli Altri.

La sua ultima sera, il cronista statunitense vuol vedere un ultima volta il muro, e lo vuole fare da Potsdamer Platz, che prima del 13 agosto era uno degli angoli più trafficati di Berlino e ora (1962) è deserta, sembra piangere dall’asfalto lacrime di sangue, come se il filo spinato la incidesse nel profondo. (ci siamo concessi qualche libertà da aggiungere alla testimonianza di Bainbridge).

Una piazza che prima era colorata, ridotta al bianco e nero, circondata da poliziotti. Il giornalista decide di salire e dare un’ultima occhiata al mondo al di là. Nessun suono, nessun movimento, Bainbridge a un tratto si ricorda di cosa gli disse una volta la corrispondente da Berlino del London Times dopo aver visto un coniglio correre nella parte orientale di Potsdamer Platz – “è stato come vedere un coniglio correre a Times Square”.

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Questi erano i primi giorni del muro di Berlino, che in verità si sono ripetuti fino a quel 9 novembre del 1989. Giorni tutti uguali, grigi di quel grigiore che nelle nostre teste definiamo come “grigio DDR”. Con quel fascino lì, che solo il Novecento ci sa lasciare, quel Novecento che ci ha lasciato 25 anni fa. Da allora Berlino è stata molte cose. La capitale della Germania unita, del nuovo secolo, quella dell’Europa e di una certa idea di mondo. E forse ancora oggi è vero quello che disse Kennedy, il 26 giugno del 1963.

Ogni uomo libero, ovunque viva, è cittadino di Berlino. E, dunque, come uomo libero, sono orgoglioso di dire “Ich bin ein Berliner”.

AB

Unica possibile colonna sonora oggi:

1 thoughts on “I primi giorni del muro di Berlino

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